Welfare. Dove va la Caritas?

SOCIALE

Mi hanno detto di andare da don Luciano” – questo mi ha ripetuto con fastidio qualche mattinata fa una persona che lavora occasionalmente a ripulire le spiagge. Diversi “utenti” incontrati fin dal settembre dello scorso anno mi hanno detto la stessa cosa. Qualcuno in modo polemico:“Io mi rivolgo al Comune. Che c’entra la Caritas o don Luciano?”. Ho pensato in un primo tempo che fosse una delle tante voci che corrono tra gli “utenti” dei servizi sociali. Ora credo che questa voce sia vera. Sono mandati da chi? Da qualche funzionario del Comune? Da qualche assessore o dirigente? Dalle assistenti sociali? Sicuramente cambia il modo di essere della Caritas diocesana, che dovrebbe svolgere altri compiti. E soprattutto quanto è fastidiosa e pericolosa l’affermazione: “Vado alla Caritas a prendere il contributo”.

Il Sinodo diocesano  ha definito i compiti della Caritas diocesana e di quella parrocchiale.

La prima deve svolgere un lavoro di “Sensibilizzazione della chiesa locale; coordinamento e animazione di iniziative caritative; formazione degli operatori; studi e ricerche sulla realtà del territorio”. La Caritas diocesana, con all’interno un “osservatorio permanente delle povertà”, ogni anno deve elaborare un progetto e periodicamente organizzare convegni sulla carità. Era utile un  tempo, e sarebbe utile ancor più oggi, il contributo critico dell’Osservatorio permanente delle povertà,  le cui analisi venivano anche pubblicate.

La Caritas parrocchiale deve promuovere e coordinare “iniziative di carità e di servizio ai più poveri presenti nel territorio…” Tra le caritas parrocchiali di uno stesso paese è opportuno “ci sia un coordinamento per favorire l’unitarietà degli interventi e la collaborazione con le istituzioni del territorio”.

Nello statuto approvato nel Sinodo è dato come compito alle Caritas parrocchiali quello di conoscere ed esaminare i bisogni ovunque emergenti e sviluppare testimonianze coerenti di carità, coordinare le diverse espressioni caritative della parrocchia (associazioni, gruppi…), senza sostituirsi ad essi.

Ho citato questi documenti non per  rispetto di norme “vecchie”, ma perché c’era e c’è saggezza in quelle parole. L’aiuto deve essere costruito su una relazione, che solo nella comunità parrocchiale è possibile. Un aiuto che non è solo fare il bene, ma soprattutto voler bene. Un sostegno non per la bolletta o altro, ma un accompagnamento, una vicinanza, una prossimità. Non è “assistenzialismo” pagare la bolletta e guardare negli occhi la persona richiedente e stabilire un rapporto, un dialogo, per capire se c’è bisogno di altro: conflittualità familiari, stili di vita, carenza di relazioni significative, recupero scolastico, e  verificare quali sono le risorse positive di quella famiglia. Dalla conoscenza si aprono altre possibilità ed anche la necessità del lavoro di rete.

Un’azione congiunta, una relazione continua con le assistenti sociali, per forme di aiuto sui singoli casi con le Caritas parrocchiali ci sono sempre state. E molti parroci chiedevano che il dialogo fosse più continuo e che ci fosse maggiore comunicazione.

La parrocchia, come amava dire Giovanni XXIII, è la fontana del villaggio,  “il luogo della carità”, dove testimoniare una “carità aperta”, con una missione fondamentale che “non è tanto di fare ‘dei parrocchiani’, quanto di educare ‘dei cristiani’ che siano animati dal genuino spirito del vangelo”.

Proprio in questi tempi in cui si propone un welfare comunitario e si sottolinea, in modo generalizzato (politici, studiosi…), l’emergenza di ricostruire il tessuto sociale, di dare senso alle relazioni, di mettere al centro il prendersi cura… sono quanto mai vivi e importanti le modalità dell’aiuto e il  ruolo della comunità parrocchiale.

Il welfare è il luogo dove le esistenze delle persone si ritrovano, dove il senso della vita, e non solo la soddisfazione dei bisogni come tali, è prioritario. 

 

 

 

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