Anche i surfisti a Malibù devono essere nutriti e mantenuti?

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Darlo a tutti? La prima formulazione completa della teoria del reddito di cittadinanza è di  Philippe Van Parijs: un suo libro porta in copertina un giovane che fa surf, e un suo articolo famoso è intitolato: “Perché i surfisti vanno nutriti: l’argomentazione liberale per un reddito di base non condizionato“. Anche i ricchi occidentali che fanno surf a Malibù possono ricevere il reddito di base, che è “un trasferimento monetario concesso incondizionatamente a tutti su base individuale, senza verifica della situazione economica o della disponibilità al lavoro“.

Reddito di base o di cittadinanza e reddito minimo sono due cose diverse e antagoniste. Il primo è universalistico, erogato senza condizioni, a prescindere dal reddito posseduto. Nella sua proposta più radicale “dovrebbe fare piazza pulita dei trasferimenti monetari esistenti sia di natura previdenziale e sia assistenziale”. Per averne diritto è sufficiente “esistere“. I sostenitori del “Basic incom earth network” dicono in un “visionario” e affascinante manifesto: “Sopprimete indennità di disoccupazione, pensioni pubbliche, salari minimi, aiuti alle famiglie, esenzioni e crediti d’imposta per persone a carico, borse di studio… aiuti per persone in difficoltà… ma versate ogni mese a ciascun cittadino una somma sufficiente per coprire i bisogni fondamentali di un individuo“. Un beneficio universale da dare a tutti, a chi lavora e a chi no, al ricco e al povero.

Il “reddito minimo” consiste in un trasferimento di reddito destinato alle sole famiglie in condizioni di indigenza economica e disponibili a cercare un lavoro, a partecipare ad attività di formazione. Non è un modo per affrontare il problema di una categoria di persone, né è un beneficio solo per i poveri, interessa molti, che attraversano in una fase della vita lunghi periodi di inattività. Alla base vi sono risvolti etici di una società aperta alla condivisione e alla solidarietà, per alleviare in molti cittadini l’incertezza quotidiana di ricerca dei mezzi per sopravvivere.

Il primo è universale, il secondo è selettivo. Sul primo ci sono due obiezioni: i costi e una diffusa ostilità a erogare un reddito anche a chi potendo lavorare non lo fa. “Dobbiamo pagare Simpson e compagni per non far nulla e stare davanti alla Tv a mangiare pop corn?” “No – risponde John Rawls (1921-2002) – “chi fa surf tutto il giorno al largo delle spiagge di Malibù deve trovare un sistema per mantenere se stesso e non ha diritto di accedere a risorse pubbliche“.

La scelta del reddito minimo non è indolore vi sono i costi burocratici, problemi di natura tecnica per individuare gli aventi diritto, e poi i sistemi di controllo e di monitoraggio, la vigilanza continua per neutralizzare i comportamento opportunistici, il rischio del lavoro nero…

Il reddito di base esercita un certo fascino proprio nella sua forma radicale, ma in nessun Paese è adottato. Quello minimo, accompagnato ad un progetto personalizzato di reinserimento sociale e lavorativo, assume varie forme. In questi ultimi anni molte regioni sono intervenute con criteri simili, e l’ultimo governo si è mosso per introdurre un’unica misura nazionale di contrasto alla povertà, che cambia spesso pelle e ora anche età (la fascia che più ha risentito la crisi è infatti quella 18 – 24 anni). Un bell’argomento di cui si parla ampiamente ovunque. Ed è un bene. Sarebbe stato meglio se anche in campagna elettorale se ne fosse discusso.

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