Il suicidio assistito dell’italiano. Quel presidente del Consiglio che parla tutte le lingue.

CULTURA

Su facebook un post diffuso in modo capillare diceva che il presidente Conte al G8, contrariamente ai suoi predecessori, parlava tedesco con la Merkel, francese con Macron, e ovviamente inglese con Trump. Forse non è vero, se lo fosse non sarebbe una bella notizia. Il presidente dell’Accademia della Crusca (Marazzini) racconta che in un’assise internazionale un ministro francese dava i saluti in inglese e poi parlava in francese, uno spagnolo parlava in spagnolo, arriva l’italiano e parla inglese. Quasi vergognandosi della sua lingua. Sarebbe bello sentire qualche volta la Merkel che dice qualche parola in italiano, e, perché no, anche Trump!

Siamo uno strano paese. Molti si rivolgono alla Treccani, all’Accademia della Crusca… per invocare interventi censori su una parola, un accento. Si scandalizzano per “salire su” o “scendere giù” (espressioni ritenute scorrette), uso della maiuscola o minuscola dopo il punto interrogativo… e poi a Milano al politecnico si richiede come lingua di “dottorato” solo l’inglese, che è una straordinaria lingua di cultura, un modello della divulgazione scientifica. Ma anche la lingua italiana lo è. Noi, però, invece di affiancare come fanno in altri Paesi, sostituiamo. Invece di una sana complementarità, annulliamo l’italiano, che dal XIII secolo, adagio adagio, è penetrato nelle altre lingue, dando una immagine viva del nostro paese. Mentre le grandi potenze coloniali imponevano le loro lingue su popoli subalterni, l’italiano si è diffuso con una “rivoluzione silenziosa” e ha sempre viaggiato sulle ali di un “prestigio”, che proveniva dalle abilità di marinai, commercianti, letterati, architetti, musicisti…

Mi ricordo la passione per la lingua italiana dei contadini e dei braccianti, quando a me giovane studente, in estate, ponevano domande accumulate per giorni e mesi. Si dice imfermeabile o impermeabile, (canale) collettone o collettore, fronne o foglie… Erano per lo più discussioni tra padri e figli. Ed ero quasi sempre costretto a dare ragione a ragazzini saputelli, e i padri erano mortificati. Non era un gioco per loro, che avevano imparato a leggere e scrivere nelle scuole serali dell’Ente di Riforma. Non posso dimenticare “attenti al cane”. Il figlio aveva scritto “atenti” con una t e il padre lo aveva sgridato: “si scrive con due t, che ti mando a fare a scuola!”. Poi rilegge e lo rimprovera più aspramente: “si dice attente al cane. Attente…”. Ne era seguita una discussione accesa che coinvolse altri. Insomma mi aspettavano e che tristezza dare torto a quel padre che rimase molto dispiaciuto. Cercavo sempre di recuperare qualche “lezione” antica come per “fronne”, ma ancora oggi ho una punta di amarezza per “attente”. Avrei potuto richiamarmi alla politica di genere e dire: “Si può scrivere anche ‘attente al cane’, anzi è più opportuno il femminile, quel cartello si rivolge soprattutto alle donne”. Era una consuetudine, all’imbrunire, dopo una giornata nei campi, che ragazzi, giovani, adulti (spesso anche le donne), seduti sul ponte parlassero di lingua italiana, di storia, del cielo e dello stelle. Alle mie storie si aggiungevano le loro (la guerra, l’emigrazione…). Discussioni “leggere”, fino a notte inoltrata, e la mattina ci si alzava alle cinque per mungere le vacche o raccogliere le barbabietole…

Mi ricordo la passione per la lingua italiana dei lavoratori che frequentavano i corsi delle “150 ore”, la premura di braccianti, operai… quando dovevano intervenire in una riunione. Che cosa è accaduto per ritrovarci, nei nostri tempi, con questo disamore per la lingua italiana?

Quasi tutti gli italiani parlano oggi la stessa lingua. Un dato importante per l’unità nazionale, un patrimonio per la democrazia. Una lingua che, maltrattata offesa utilizzata in patria in modo arrogante e superficiale, continua a essere amata (e molto) all’estero.

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