La morte di Ivan. Quella di Elisabetta. La paura, il dolore, la semplicità del morire.

CULTURA

La morte di Ivan Ilic, un lungo racconto di Lev Tolstoj. Tutto è concentrato nella stanza di un malato di cancro.

Ivan è un rispettabile funzionario con relazioni importanti e una famiglia che vive un apprezzabile benessere: una bella casa, amicizie che contano, il palco a teatro. “Il più grande tormento di Ivan Ilic era la menzogna: quella menzogna in cui tutti, chissà perché, s’accordavano, secondo la quale lui, anziché avviato alla morte, era semplicemente malato, e non aveva da far altro che star calmo e curarsi, e allora si sarebbe ottenuto un risultato eccellente”. Si dava tormento che non volessero riconoscere quello che tutti sapevano e costringessero anche lui a prendere parte a questa menzogna, alla vigilia della morte. Recitavano la parte e lui avrebbe avuto voglia di gridare: “Smettetela di dire bugie”. Anche la visita del medico era un inganno. La moglie, davanti al medico, lo rimproverava perché non prendeva le medicine, si coricava in posizione nociva… Insomma era anche colpa sua se stava male.

Solo Gherasin il suo servitore gli stava accanto, con leggerezza e destrezza lo metteva a sedere, gli sosteneva le gambe, faceva tutto di buona voglia, passava le notti accanto a lui. “Tutti quanti morremo. Perché non ti dovrei assistere?”, rispondeva semplicemente Gherasim quando Ivan Ilic gli diceva di andare a riposare. E solo con lui Ivan si sentiva bene. Oltre alla menzogna, soffriva che nessuno lo compatisse. “Sentiva un desiderio che lo accarezzassero… a quel modo che si vezzeggiano e si consolano i bambini”. La menzogna intorno a lui era ciò che avvelenava più d’ogni altra cosa i suoi ultimi giorni di vita. Si avviava alla fine, e con la menzogna intorno anche il dolore era senza scopo. Interminabili giornate e nottate uguali. L’angoscia di star solo, ma con gli altri era peggio. La vita intorno continuava… Quando tutti uscivano, Ivan Ilic aveva l’impressione di sentire sollievo. “La menzogna non c’era più, era uscita con loro, ma il dolore rimaneva”.

Da solo o con Gherasim Ivan piangeva. Si affacciava l’idea che la sua vita fosse stata fuori strada, aveva rovinato tutto ciò che gli era stato affidato, tutto un “orribile, enorme inganno”. E porvi rimedio era impossibile.

Si era alla fine. Negli ultimi momenti si avvicinò il figlio, che gli prese la mano, la baciò e pianse. Anche la moglie cominciò a piangere. Ebbe una gran pena per loro, voleva che non soffrissero, improvvisamente l’inganno si dileguò, si sentì in comunione con i suoi, scomparve il dolore e anche la paura della morte. “Ivan Ilic era riuscito a passare dall’altra parte, aveva avvistato la luce, e gli s’era svelato che la sua vita era stata fuor di strada, ma ch’era ancora possibile rimediarvi”.

La morte di una persona cara lascia sempre un discorso spezzato, interrotto. Molti ne hanno fatto tragica esperienza in questo periodo. Ricucirlo, riprenderlo attraverso le parole e il ricordo è un compito che spetta ai vivi. Ed è quello che fa Domenico Di Iasio, in un prezioso, discreto, pudico “piccolo” libro. Riprende il dialogo con la figlia Elisabetta, morta nell’ottobre scorso. Una lunga lettera con le parole dette da un padre e una madre accanto alla figlia che muore, e con quelle non si è fatto in tempo a dire. E soprattutto affiorano, limpidi e tersi, segni e tracce. Il lascito di una giovane donna e madre: il suo amore per la vita, la cura e la tenerezza negli affetti e nell’amicizia, le sue domande, i silenzi nella malattia, le frasi annotate e sottolineate nei libri letti…

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