Pandemia e vaccini. La comunicazione difficile, ma usare solo la paura non è mai cosa buona.

SOCIALE

“Un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce”, una massima pertinente, ma apparsa a qualcuno perfino cinica. Fin dall’inizio si è puntato tutto sulla paura, senza una consapevole accettazione del rischio. Ed ecco che coi decessi post-vaccino aumentano incertezze e ansie.

“Si contano … un milione e mezzo di Vaccinati … assai più che negli altri stati d’Europa”. Così il medico Luigi Sacco informava nel 1809 il viceré Eugenio Bonaparte sulla prima grande campagna vaccinale contro il vaiolo in Lombardia e regioni limitrofe. Numeri enormi per l’epoca, ottenuti con la collaborazione piena e fiduciosa della popolazione. Nel 1956, quando si comunicò che il vaccino contro la poliomielite era sicuro, in molte città americane, le persone scesero in piazza a festeggiare. Niente di tutto ciò oggi. Forse perché nello stesso periodo dell’arrivo del vaccino contro il Covid, si parlò della sua possibile inefficacia sulla variante. Una comunicazione che ha sollevato dubbi e timori. Non bisognava parlarne? E mancato l’equilibrio, dice la sociologa americana Zeynep Tufekci (Internazionale 12 marzo). E fa un esempio. Si è detto: “Non abbiamo prove che persone vaccinate impediscano la trasmissione”, quando si poteva dire: “Abbiamo motivo per credere che i vaccini attenuino la contagiosità”. Insomma mostrare il bicchiere mezzo pieno. Ed è quello che fa il medico con i pazienti. Negli spazi di incertezza si sono inseriti coloro che lanciano messaggi di sfiducia, per i quali la disponibilità dei vaccini, anzitempo, origina addirittura ulteriori sospetti.

C’è un divario tra il modo di funzionare della ricerca scientifica e il modo in cui è percepita dalla pubblica opinione. I ricercatori comunicano le loro scoperte mediante i social network, interviste… poi ci sono i giornalisti e i media che seguono logiche polarizzate, come fosse un argomento normale di dialettica politica. Perché tante contraddizioni tra scienziati? “Se ci chiedete notizie sul vaiolo vedrete che siamo tutti d’accordo. Ora ci sono cose che non sappiamo” (Burioni). Le persone, anche quelle più acculturate, hanno virologi e rubriche di riferimento… Internet ha fornito un aiuto straordinario sia alla solitudine che alle conoscenze, ma l’impossibilità di incontrarsi e confrontarsi pubblicamente (sui luoghi di lavoro, in dibattiti pubblici…) ha creato una ulteriore situazione di disagio.

La comunicazione è stata sbilanciata sul versante della paura, “necessaria per non creare un falso senso di sicurezza”. Questo fin dall’inizio. Si percepiva la sfiducia nei confronti del popolo, degli adolescenti ancora di più (incuranti delle sorti dei nonni), ed una lontananza, una mancanza di empatia. Si dice che Berlusconi, raccomandasse inizialmente alle sue televisioni di fare programmi per alunni di scuola media, non però i migliori, ma per l’ultimo della classe. Le autorità fin dall’inizio hanno preferito dare regole chiare, le stesse, ripetute. Come l’insegnante che dà le solite raccomandazioni ad alunni pigri e furbi. Lo stesso schema (distanze, mascherine…), che non è cambiato, anche quando si scopriva che luoghi aperti e chiusi presentano situazioni molto diverse. Ed è al chiuso che si creano le condizioni per la superdiffusione.

In Giappone le linee guida sottolineano di evitare gli spazi chiusi, i luoghi affollati, i contatti ravvicinati. Noi qui abbiamo visto ripetutamente immagini di spiagge, lungomari pieni di gente… che forse contagiano meno dei luoghi chiusi. Si è inseguito la chiusura perfetta, si sono elogiati coloro che non uscivano mai… Pare che maggiore trasmissione sia avvenuta nelle case (badanti), sui pianerottoli, nei piccoli negozi… Ci sono storie difficili, tristi di persone con problematiche mentali, chiuse in casa. Se le famiglie fossero aiutate a mantenere un minimo di relazioni… se nei Centri diurni a piccoli gruppi di persone, distanziate, a turno, fosse concessa la possibilità di incontrarsi… una o due volte la settimana…

Non esiste chiusura perfetta o apertura perfetta, senza la collaborazione dei cittadini, di tutti (bambini e disabili sono tra i più responsabili). C’è ancora tempo (nelle prossime aperture) per aggiornare le informazioni, modificare la comunicazione, spingendo i cittadini a ragionare sui rischi che corrono nei diversi contesti, assecondando il desiderio di sentirsi protagonisti. Gli adolescenti non possono essere ritenuti potenzialmente ribelli o passivi esecutori, ma persone capaci di scegliere, con la voglia di metterci qualcosa di proprio, di essere un po’ eroi.

Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on LinkedIn