Dante e Manfredi. Politica e conflitti, odi e vendette, pietà e misericordia.

CULTURA

“Chiunque tu sei… volgi il viso, poni mente se di là mi vedesti mai”. “Biondo era e bello e di gentile aspetto…”. Dante lo guarda fisso e risponde “umilmente” di no.

“Gentile” non ha il significato odierno, non ritrae un volto fine e delicato, equivale a nobile, delinea una figura, da cui emana dignità e decoro. “Io son Manfredi, nipote di Costanza imperatrice”, dice sorridendo. E racconta che lui, scomunicato, trafitto e morente, si affida alla bontà divina che “ha sì gran braccia, che prende chiunque si rivolge a lei”. La battaglia di Benevento era stata violenta e sanguinosa. Una superficie sterminata di cadaveri e corpi mutilati. Due giorni furono necessari per riconoscere il corpo del re, trovato là dove i soldati francesi parlavano di un giovane con i capelli biondi che si era lanciato nella mischia più aspra con straordinario coraggio. Furono essi a porre quel corpo accanto alle rovine di una chiesa, ponendo ciascuno sopra una pietra. Un sepolcro semplice, voluto dai soldati vincitori per il re vinto, sullo stesso campo di battaglia. Era il 1266. Manfredi aveva 34 anni e Dante uno.

Pietà umana e bontà divina congiunte. Non così per la Chiesa. Arrivò l’ordine del Papa per disseppellirlo e disperderne i resti. “Se il vescovo di Cosenza, che alla caccia di me fu messo da Clemente, avesse in Dio ben letto questa faccia, le ossa del corpo mio sarebbero ancora lì, custodite sotto il cumulo di pietre. Ora le bagna la pioggia e move il vento, dov’egli le tramutò a lume spento”. La “faccia” è quella della misericordia. Gli uomini non sanno perdonare come Dio. Non sanno intendere il valore di una persona anche sotto il peso del peccato. Manfredi esprime una riflessione straordinaria: la misericordia divina agisce senza tener conto della Chiesa e salva anche l’anima di uno scomunicato pentito.

L’Italia meridionale era normanna, l’ultima discendente, Costanza, aveva sposato l’imperatore svevo Enrico VI; dalle nozze nacque Federico II, padre di Manfredi. Questi a sua volta era padre di un’altra Costanza, sposata a Pietro III d’Aragona. I figli (i nipoti di Manfredi) regnavano al tempo di Dante in Sicilia e in Aragona. Manfredi è l’anello di congiunzione di tre dinastie: normanna, sveva, aragonese, ma soprattutto era il capo del partito ghibellino, colui che aveva combattuto aspramente il partito guelfo, al quale Dante rivendicava con orgoglio l’appartenenza.

Dante riteneva “Federico e il suo figlio bennato Manfredi… di grande nobiltà d’animo e rettitudine… vissero da uomini, e non da bruti”. Manfredi studiò nelle Università di Bologna e Parigi, conoscitore della lingua araba ed ebraica, studioso di scienze matematiche e astronomiche. Ibn Wasil, storico arabo, giunse nel 1261 come ambasciatore e rimase impressionato da un re, che conosceva a memoria trattati di geometria e di geografia, e che a Lucera stava costruendo “un istituto scientifico per coltivare tutti i rami del sapere”. Nello stesso periodo suscitava meraviglia la costruzione di una nuova città, così moderna che “se fosse vissuto il principe Manfredi pochi anni in più, sarebbe divenuta Manfredonia una delle più belle città del mondo” (Salimbene de Adam, 1221 – 1288)).

Manfredi esercitava un grande fascino sui contemporanei ed è una delle figure più importanti della Divina Commedia. In lui forte è la condanna di una Chiesa faziosa e coinvolta nelle lotte di potere, incapace di perdono e pietà. Ma non c’è risentimento nelle sue parole; entrambi (Dante e Manfredi) dimenticano i partiti, prescindono da considerazioni politiche, meditano sulla crudeltà degli odi umani, che vanno oltre la morte.

Manfredi è anche un padre e invita Dante a recare la notizia della sua salvezza alla “mia bella figlia… alla mia buona Costanza…”. Nata nel primo matrimonio di Manfredi. Nessuno ebbe pietà del resto della sua famiglia. Elena, la seconda moglie, morì sei anni dopo la morte di Manfredi. I quattro figli (da uno a sei anni) furono separati dalla madre e tenuti nascosti e prigionieri. I tre maschi nel 1299, dopo 33 anni, comparvero davanti a Carlo II, quasi ciechi, dementi, malati. Da Castel del Monte furono rinchiusi nei sotterranei di Castel dell’Ovo a Napoli. Beatrice la maggiore, non potendo accampare diritti dinastici, fu liberata nel 1284. Notizie che Dante ignorava. Altrimenti, chissà cosa avrebbe scritto!

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