“La sposa”. La fiction che fa discutere. Una storia e una memoria da ricordare

SOCIALE

“Il Veneto non era così… maschilista, rozzo” “La Calabria negli anni sessanta? Non c’erano queste situazioni… ” “Le donne erano emancipate, eravamo anche noi nel Sessantotto!”.

E giù pareri sul fatto che non ci si riconosce in quel racconto e sembra emergere una “cancel culture” di fatto. Nuto Revelli ha raccolto migliaia di lettere e testimonianze degli italiani dispersi in Russia, poi ha raccontato le storie dei contadini delle campagne povere. “L’anello forte” parla di donne. Un lavoro di sette anni per raccogliere i racconti di donne contadine (sessanta le testimonianze delle immigrate dal Sud, in maggioranza dalla Calabria, le calabrotte). Parlano di “piazzisti”, sensali, matrimoni per procura che portano nelle Langhe un gran numero di donne meridionali. Storie avvincenti che mostrano la centralità della figura femminile, vicende, destini, culture diverse che si sforzano di convivere insieme. Ci fanno conoscere quale varietà e profondità possono assumere parole come lavoro, maternità, matrimonio, figli, casa. L’amore non è mai un rapporto a due, comprende i figli, la terra, la campagna da curare e far crescere… Le “spose” meridionali trovano tutto diverso, la lingua, il modo pensare, la coabitazione… Crisi di pianto e nostalgia… ma in tutte le storie c’è una forza, una vitalità, una capacità di accettare il destino e la volontà di divenire protagoniste in una terra diversa. Mostrano come la famiglia e la stessa società contadina, lacerate dall’emigrazione verso le aree dello sviluppo industriale durante il boom industriale, devono a queste donne la loro sopravvivenza e la loro continuità. Manifestano la stessa voglia di non arrendersi che è proprio della protagonista della fiction.

“I matrimoni delle donne del Sud e i contadini delle Langhe, un fenomeno di grandi dimensioni e tuttavia pressoché ignorato, sono uno sforzo di rinascita e una promessa di continuità”. Arrivarono dal Sud anche in altre aree del Nord, e le loro testimonianze non nascondono le sofferenze per l’abbandono della casa, del dialetto, degli affetti.

Un fenomeno esteso, i matrimoni a distanza. Un racconto interessante è quello di Pasquale Guerra in “Via tribunali è un via vai”. Assunta Di Pinto, una ragazza da anni in convento rientra a casa, improvvisamente, non vuole più starci. La famiglia è colta alla sprovvista, prova vergogna e timore per il futuro. Ci si rivolge al prete, all’onorevole democristiano, segue il contatto con un cugino emigrato con la famiglia in Australia a Perth. La ragazza non esce di casa, non disfa nemmeno le valigie, e con varie circostanze favorevoli riescono a farla partire dopo pochi giorni. Appena arrivata a Perth, si sposa con un italiano mai conosciuto. Una storia vera accaduta a Manfredonia a metà anni Sessanta.

Si può non conoscere Nuto Revelli (tutte le opere sono pubblicate da Einaudi) o la storia sociale del dopoguerra, ma da certe reazioni si nota che mancano i rapporti generazionali e i racconti dei nonni. Prima nelle case, in un angolo, c’erano degli “altarini”. Fotografie di genitori, nonni, fratelli dispersi in guerra… Quella era la “memoria” e i nipoti conoscevano le storie. Quelle di donne morte giovani e con figli piccoli, situazioni disperate, sanate in parte da matrimoni combinati con vedove o donne nubili non più giovani. C’erano mediatori, sensali… così da S. Giovanni Rotondo si andava a Rignano (paese delle vedove), da Monte S. Angelo a Vico… matrimoni di convenienza reciproca e poteva nascere un affetto, una vita in comune.

E’ strana la storia di Maria? Inspiegabile partenza e “matrimonio”? Se a dirlo sono amministratori di rilievo e figure pubbliche importanti, significa che c’è un problema serio di conoscenze e di memoria in questo paese.  Una fiction, un racconto non possono dire tutto, ci vuole un po’ di immaginazione. Ho visto recentemente un documentario di Luigi Comencini: I bambini in Italia. Una puntata interamente dedicata a Monte S. Angelo. L’emigrazione massiccia, bambini che vedevano i padri solo a Natale, le vedove bianche…  Risale al 1971. Coloro che lanciano ancora oggi anatemi contro l’industria chimica, insediata qualche anno prima, dovrebbero vedere quel documentario. Non per cambiare giudizio, ma per usare forse un linguaggio diverso.

Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on LinkedIn