I vecchi. L’esercizio quotidiano della cura per vedere ciò che è invisibile agli occhi…

SOCIALE

“La cura delle persone è il problema maggiore del futuro”. Queste le parole di un anziano preside molti anni fa. Lui aveva assistito la moglie malata di tumore. Senza figli (“fortunati quelli che ce li hanno!”). Aveva conosciuto la sofferenza, la solitudine, e quando lui stesso ricevette la medesima diagnosi preferì andar via volontariamente.

A Manfredonia ci si è scandalizzati per i maltrattamenti nella Casa di riposo, si sono invocate pene severe… e si pensava che si avviasse una riflessione sulla cura, sui vecchi. Sono la maggioranza della popolazione. Un fatto inedito, irreversibile, che si ripercuote in tutti gli ambiti (servizi, previdenza, urbanistica…). Una situazione preoccupante e complessa in tutto l’Occidente e già la Pandemia aveva mostrato quanto fosse fragile il sistema della cura e della protezione. La guerra poi sembra aver assorbito le energie mentali ed emotive di tutti, per cui ogni altro problema è stato accantonato.

Il festival “I dialoghi di Trani”, del prossimo autunno, si occuperà della Cura, “parola umana che implica osservazione, ascolto, conoscenza”. E d anche immaginazione, una competenza fondamentale del cittadino democratico! Cioè pensarsi nei panni di altre persone, saper comprendere storie personali, aspettative, desideri.

Immaginare e capire chi è il “vecchio“. Lo pensiamo come soggetto destinatario di prestazioni e servizi sociosanitari, eppure è persona non diversa dagli altri, desiderosa di essere riconosciuta come soggetto di diritti… Si parla di autosufficienza e non autosufficienza come entità astratta, si misurano quotidianamente le performance fisiche, gli organi difettosi, le cure specifiche. Per chi sta vivendo un momento così critico, la cosa più difficile non è tanto quella di perdere la salute fisica, ma provare a resistere per essere se stesso, conservare la dignità, il diritto ad autodeterminarsi, a non essere considerato superfluo, inutile, fuori posto.

Manca una cultura dell’invecchiamento. Al di là di forme carezzevoli e stucchevoli ci sono comportamenti distratti, superficiali, di paura verso coloro che affrontano l’esperienza più ardua della vita. Figli e parenti vogliono che i genitori stiano bene, si mantengano giovanili, non devono essere malinconici, e soprattutto non devono parlare della morte. Se poi hanno i primi acciacchi, si devono “rassegnare”, se hanno un crollo improvviso, e muoiono: “Meglio! Così non ha sofferto”.

Siamo tutti terrorizzati dalla non autosufficienza, dalla demenza… Quando i vecchi vi scivolano le famiglie si sconvolgono, si diradano persino le visite… Figli e nipoti, però, avvertono una voce interiore: “Questo a me non capiterà!”. Giocano e barano con la vita, dice Simone de Beauvoir: “Non sappiamo chi siamo, se ignoriamo chi saremo: dobbiamo riconoscerci in quel vecchio, in quella vecchia… è necessario se vogliamo assumere la vita, il senso dell’umanità nella sua totalità”.

Non ci sono alternative: case di riposo o servizi di assistenza domiciliare e badanti. “Mio padre a casa era fastidioso, non voleva andare nella casa di riposo, ora è ubbidiente, tranquillo”. Forse si è solo rassegnato. L’anziano specie non autosufficiente è costretto a combattere una battaglia con le persone che si prendono cura. Si accorge che lentamente svanisce il legame con ciò che è stato e che vuole ancora essere. Una sofferenza sottile che deriva dal subire relazioni che manipolano, unidirezionali. Relazioni asimmetriche. L’anziano non riesce a stabilire rapporti di reciprocità. I figli si possono mandare a quel paese, non così l’operatore che sa “quello che è bene per lui”. Non c’è spazio per negoziare. Nel Sud, con i figli che vivono fuori, la situazione è più complessa. Quando essi tornano gli operatori sociali e sanitari riferiscono i deficit, eventuali recuperi, un resoconto che registra la decrepitezza, ciò che il vecchio non è più.

La longevità è assicurata dalla scienza e dalla medicina. Le cure sanitarie vanno bene, ma ci lamentiamo… E non vediamo altre cose che mancano. Non valorizziamo quelle figure che si prendono cura dei corpi, li puliscono, li cambiano… che ai gesti accompagnano parole (spesso in dialetto), che rassicurano, figure familiari e importanti. Operatori sociali che sanno talvolta molte più cose delle persone che assistono. Per essi una formazione carente e frettolosa, assunzioni precarie….

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