”L’ultima isola” ricuce e accoglie. Il grido di Segen e Serricchio… per rompere l’indifferenza.

CULTURA

“All’improvviso in mezzo al mare la nave si blocca. E’ buio. Qualcuno  fa segnali con un panno che brucia. I passeggeri impauriti si spostano e l’imbarcazione si inabissa”.

Accade a mezzo miglio da Lampedusa, nei pressi dell’isola dei conigli. Ci sono degli amici su una barca, sentono qualcosa, rumori strani. Sono gabbiani? No. Non c’è la luna. Si avvicinano e intravedono sagome. Sono boe? No. Sono teste e voci di naufraghi, braccia che si tendono, lamenti. Sono decine… Si precipitano a tirarli su, segnalano la presenza. Ma i soccorsi  non arrivano. Giungono un’altra imbarcazione, un peschereccio, tutti caricano i corpi ancora in vita. Lampedusa è a cinque minuti di distanza… I superstiti sono 155. I corpi senza vita 366. Persone imbarcate oltre 545. Sono quasi tutti eritrei. E’ il 3 ottobre 2013. Nessuna inchiesta. “L’ultima isola” racconta questa tragedia. Il regista (Davide Lomma) ci parla di 8 amici e una barca, il superamento del dolore in qualcosa d’altro, nuove amicizie e nuove speranze. Gli spettatori (cinema S, Michele a Manfredonia nel giovedì della settimana santa) sono cinque. Nelle riflessioni e auguri di questi giorni (pace, passione, resurrezione) sarebbe giusto ricordare il Mediterraneo dei migranti morti: dal 2013 al 2023 sono oltre 26.000.

All’improvviso, in mezzo al mare, un’altra nave ha un guasto. Tesfalidet Tesfom è anch’egli eritreo. E’ il 12 marzo 2018. Riesce a sbarcare a Pozzallo, ha 22 anni, una tubercolosi avanzata, pesa 30 chili, muore il giorno dopo nell’ospedale di Modica (Ragusa). Nessuno ne parla.

Molti corpi recuperati hanno in tasca qualcosa: un pugno di terra, la pagella, una foto, un indirizzo… Tesfalidet Tesfom (chiamato Segem dagli amici) ha due poesie, scritte a mano in “tigrino” su un foglio che odora di salsedine. Lo scorso anno nel 2024 le due poesie sono inserite, dalla Treccani, nelle antologie poetiche scolastiche e accostate a quelle di Omero, Kavafis… Devo essere grato a una amica (Gabriella Rinaldi) se conosco un nuovo poeta mediterraneo.

Le poesie di Segem, scritte probabilmente durante il viaggio, si trovano su Internet. “Non ti allarmare fratello mio, dimmi non sono forse tuo fratello? /  Perché non chiedi notizie di me? / E’ davvero così bello vivere da soli, / se dimentichi tuo fratello al momento del bisogno? / Cerco vostre notizie e mi sento soffocare …  Ti prego fratello, prova a comprendermi, / chiedo a te perché sei mio fratello, ti prego aiutami… Il tempo vola con i suoi rimpianti, / ma è sempre meglio avere un fratello. / No, non dirmi che hai scelto la solitudine, / se esisto è perché ci sei  con le tue false promesse, / mentre io ti cerco sempre, / saresti stato così crudele se fossimo stati figli dello stesso sangue? / Ora non ho nulla, / perché in questa vita nulla ho trovato, / se porto pazienza non significa che sono sazio…”

Nella seconda parla del Tempo.  “Tempo sei maestro, per chi ti ama e per chi ti è nemico, sai distinguere il bene dal male, chi ti rispetta e chi ti dà valore, / senza stancarti mi rendi forte, / mi insegni il coraggio/…”. Il tempo aiuta a resistere, a combattere contro oppressori indifferenti e ostili. “Ogni giorno che passa, gli errori dell’uomo sono sempre di più, lontani dalla Pace… esseri umani che non provano pietà...”

La mente corre a Cristanziano Serricchio. “Poeta garganico”, “Uomo mediterraneo”, sono definizioni che gli stanno strette. “Uomo mediterraneo, mi dici, / affacciato a queste rive di sale / daunio-troiano, a scrutare il ritorno / di Ulisse, o per morire forse anch’io / in questo sporco mare di rovine”.

Un lungo percorso che nasce con “Stele Daunie“. Il racconto di nuove genti che arrivano, l’inquieta babele errante, i richiami, gli urli balbettati dentro e fuori le caverne, donne con bambini. “Qui dalla valle dell’Indo per mare, / seguendo come i morti la via del sole, / con vele quadrate e lunghe vesti / talari, i Dauni primitivi non parole, / ma una lenta cronaca di morte / affidarono alle pietre sui dossi delle dune”. Sono i vinti. Arrivano con “una lunga scia di sofferenza”, ma anche con nuove speranze, tentativi di convivenza, scambio di oggetti e manufatti. Prove di integrazione. Ieri, come oggi. “Che importa / il nodo delle differenze, / lingua, colore, storia, costumi? / Quanti, simili a noi, sono stati / dove noi siamo?

Un mare di paura e di morte, dove il poeta incrocia “… solo relitti / di perenni naufragi alla deriva / chissà dove, al giuoco di correnti / o al vento di funerei canti / o nenie di donne in attesa / alla finestra di spiagge lontane”. Un mare che conserva “nei fondali di sabbia / naufragi disseminati / fra pietre colorate / anemoni e stelle marine”.

Serricchio, amareggiato e deluso, si rivolge alla vecchia (e amata) Europa, che “giace assonnata”. Una “civiltà disfatta” che costringe tutti “a camminare con gli occhi piegati nella vergogna”, dove continua la strage degli innocenti. Segen pensa che tutti siano fratelli, invita tutti a lottare insieme a lui, con fede in Dio e il rispetto per i diritti dell’altro. La conclusione: “… gente mia, miei fratelli, / una sola cosa posso dirvi: / nulla è irraggiungibile, sia che si ha tanto o niente. / Tutto si può risolvere con la fede in Dio. / Ciao, ciao. Vittoria agli oppressi”.

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