Il rifiuto della lingua del nemico. Quanto si perde! Ma a Boris Godunov nessuno dice di no.

CULTURA

La condanna ucraina del Boris Godunov alla Scala ha suscitato varie reazioni. E alla “Prima” partecipano (ricreduti?) i vertici dello Stato italiano e dell’Europa.

Non ha subito la sorte di balletti, convegni, libri, concerti… Un ostracismo della cultura russa in tutto l’Occidente, che ha trovato la condiscendenza e l’approvazione delle autorità civili e politiche, della stampa…

Dopo il Macbeth dello scorso anno, il teatro alla Scala apre con “Boris Godunov“, ancora sul tema del potere. Una scelta motivata dai responsabili del Teatro con discutibili argomentazioni “extra artistiche”. Hanno detto che il Boris è stato programmato tre anni fa, prima quindi dell’invasione russa. Hanno invitato ad ascoltare un’opera che condanna l’autocrazia al potere. Nessuna propaganda per Putin, anzi dietro Boris Godunov si potrebbe immaginare il dittatore attuale. E chissà che non si sia tentati di introdurre “segni” per facilitare questo collegamento!

A Manfredonia fino a pochi anni fa era ospitata nelle feste di fine anno un’orchestra russa: eseguiva un repertorio apprezzato da ascoltatori affezionati; alcuni tra essi oggi mostrano sconcerto per la messa al bando della musica russa. E temevano per il Boris.

In Russia, a metà Ottocento, un gruppo di giovani musicisti, stanchi del melodramma europeo, cercano una via nazionale, attingendo al “patrimonio ineguagliabile” della cultura e del canto popolare. Modest Musorgskij (1839 – 1881), “magnifico ribelle alla tradizione sinfonica tedesca e uno dei più straordinari geni musicali del XIX secolo” (Mila), crea, seguendo “il suo istinto e le tradizioni popolari e nazionali”, uno dei grandi capolavori dell’opera ottocentesca. Adatta il testo teatrale di Puskin (1799 – 1837), e offre, con Boris Godunov, soluzioni inedite, lontane da Wagner e dai modelli italiani e francesi. “Un monumento di quanto di più tipico c’è nel dramma musicale russo e al tempo stesso un lavoro inimitabile e assolutamente personale” (Grout). Un’opera, quindi, profondamente russa e legata a quella cultura profonda che incute così paura. Un’opera “nazionalista” anche per la simpatia e la solidarietà per le sventure del popolo russo, una massa anonima, una forza primordiale, la cui immensa miseria è sintetizzata nel lamento centrale dell’Innocente: “Piangi, piangi povero popolo russo”.

Il rifiuto, l’odio della lingua e cultura russa è totale in Ucraina e nei paesi limitrofi. Attraversa anche le chiese. Le due ortodosse e quella cattolica. Padre Balog è direttore dell’istituto dei domenicani di Kiev “S. Tommaso d’Aquino”. Nella guerra, dice, vale la regola di S. Benedetto: “Ora et labora, preghiera e difesa della patria”. Per lui è importante proibire canali e siti, ma è tempo di mettere al bando l’intera cultura russa (spettacoli teatrali, concerti, libri scritti in russo…). Una decisione maturata già prima del conflitto in atto. “Come Ucraini ci siamo accorti che ogni forma di cultura russa esprime le ambizioni imperialiste del Paese. Scrittori e compositori, filosofi e pensatori hanno plasmato per secoli il principio della Unicità della Russia“. Balog critica anche il Papa, e in particolare il gesto simbolico di due donne (ucraina e russa) che hanno portato insieme la croce. Insomma “nessun compromesso con il male” (Da “Avvenire“).

Accade, però, che la lingua del nemico possa “aiutare e salvare”. Alcune studentesse ucraine in fuga sono state accolte a Pordenone, in un liceo che vanta una tradizione di insegnamento del russo, lingua che gli ucraini conoscono e quelle ragazze forse potrebbero integrarsi meglio parlando con i coetanei la lingua degli invasori. Una integrazione e una crescita attraverso il dolore. Come quelle persone scampate ad Auschwitz che hanno deciso di scrivere nella lingua dei nazisti. Paul Celan(1920 – 1970), sopravvissuto ai lager, naturalizzato francese, lui che parlava sette lingue, scelse il tedesco, che imparò piccolo dalla madre, per parlare della Shoah. Uno dei massimi poeti del Novecento utilizza le stesse roventi parole e sillabe dei carnefici che uccisero i genitori.

Nei lager si ascoltava musica, molti gerarchi amavano Beethoven… Certo inquieta questa doppiezza, interroga… Come pure fa pensare il ruolo ancora di Beethoven e Rossini nel trascinare nel piacere della violenza, rappresentata nel film Arancia meccanica.

Un dibattito vi è tra scrittori africani: coloro che privilegiano la lingua Swahili, diffusa nel continente africano e quelli che scrivono nella lingua dei colonizzatori (inglese e francese). Come il Nobel dello scorso anno, Abdulrazak Gurnah.

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