Il lutto nascosto e l’idea perduta della morte. L’ultima lezione di don Milani.

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Quando vado fuori visito anche i cimiteri. Non quelli monumentali o illustri. Quelli dei piccoli paesi. Se non si ha fretta, si conoscono tante cose.

Così a Poppi dove il cimitero era sempre aperto (notte e giorno) e una professoressa francese si recava a trovare la madre quando voleva, in bicicletta e cantando. A Bibbiena, dove notai una signora anziana,  che si sedeva davanti a una tomba semplice; c’era la foto in bianco e nero di una bambina, morta una trentina di anni prima. “Non è mai mancata, ogni settimana.” – “Tanto tempo… vivere con questo dolore… “ – “E’ la madre, ha altri figli, conduce un’azienda familiare, attiva e generosa… Solo non dimentica. Il ricordo non impedisce di vivere e amare” – “Una pietosa follia….” – “Ah, sì… Ma è qualcosa di molto umano”. Così anni fa il dialogo con il custode.  

Giorni fa ho visitato il cimitero di Mattinata. Su un muro di cinta i loculi antichi, quelli del fascismo, con  i simboli littori intorno alla lapide, le scritte sull’amor di patria…  Le lapidi inviate dagli emigranti: “Il figlio dal Canada pose”. Si può provare a seguire i nuclei familiari, che si “rinviano” in loculi diversi, a distanza. C’era uguaglianza e non c’era la moda delle cappelle, che a Manfredonia hanno invaso tutto lo spazio disponibile. A Mattinata (e ovunque) non si nascondeva il dolore. Sulle lapidi di giovani vite si avverte il pianto, la tristezza, l’ inconsolabilità… Si aveva più fede e si manifestava il dolore, l’angoscia di una morte prematura. A Manfredonia ho letto, per un bambino defunto, sulla lapide un “sonetto”, in altre rime in forme poetiche classicheggianti.  Lapidi del primo Novecento, purtroppo scomparse. Al cimitero di Tremiti non ho trovato traccia delle tombe degli anarchici morti durante il “confino”. Ho visto il cimitero arabo, voluto da Gheddafi, e chissà se esiste ancora!

Ora nei ricordini, sulle lapidi, frasi consuete, sguardi che vengono da lassù, familiari che vegliano sulla famiglia rimasta… Sempre meno fede e sempre più l’etere è impregnato di messaggi di relazioni “umane” che continuano. La morte deve essere presto dimenticata, nascosta. E’ per farlo deve accadere dietro le quinte.

Tre mesi fa la morte di mio fratello. ha voluto essere cremato e posto nel luogo apposito del cimitero pubblico. Un ictus improvviso, pochi giorni di ricovero, poi la salma composta nell’obitorio dell’ospedale. Le emozioni sono appena consentite nel funerale. Poi non più. Faccio le cose di sempre: passeggio, leggo, un po’ di musica, televisione… Ricevo qualche telefonata di condoglianze, non riesco a controllare l’emozione, dall’altra parte silenzio…“poi ci vediamo”. Incontro qualcuno, un singhiozzo soffocato, e frettolosamente: “Paolo non fa niente, ci vediamo in un altro momento”. Avevo un rapporto molto “asciutto” ed essenziale con mio fratello. Frequenti le discussioni (sport, politica, la qualità del suo vino, gli asparagi, la grappa…), poi nei pranzi in campagna (Natale, Pasqua… ) ogni cosa veniva ricomposta, teatralizzata. Gli avevo chiesto di parlarmi della “colonizzazione” nel Tavoliere (anni 60) e mi ha registrato tre ore di fatti e aneddoti. Il giorno prima mi ha mostrato timidamente poche pagine scritte a mano, si vergognava, lui contadino con la quinta elementare! Un racconto – dialogo con un airone.  Lì parla della morte, delle migrazioni, della vergogna dei naufragi… Feci in tempo a dirgli che era bello, qualche errore, ma una punteggiatura accurata. Era contento e non vedeva l’ora di continuare. Avrei voluto parlare di questo racconto, del senso della fratellanza, rude e scarna, oggi scomparsa.

Prima c’erano parole e riti di fronte al dolore. Ora il lutto è un tabù, una cosa vergognosa. Si nasconde ai ragazzi, ai nipoti. Sono stato guardato con commiserazione di fronte a qualche lacrima impertinente. Tutti ammirano quei parenti che nascondono il dolore, a volte cosi bene che nessuno capirebbe ciò che è successo. Per chi non ce la fa, c’è la ricetta. Ricordo una conoscente, aveva perduto la giovane figlia, si disperava… Una sua amica ha sentenziato: “Ti devi distrarre”. E se l’è portata a Pescara in discoteca. Oggi c’è il “dovere etico di divertirsi”, non far nulla che possa ridurre la felicità, il piacere degli altri. Non si deve disturbare.

Per don Milani il trasferimento a Barbiana è stato una “bastonata durissima”. Una pieve sperduta nella montagna, accettata senza nemmeno vedere il posto. Prende un’auto a noleggio, giunge fino a un certo punto. Poi a piedi. Intorno niente, solo silenzio e bosco. Un temporale, arriva a Barbiana che è buio, infreddolito. Non c’è nessuno. E’ il 7 dicembre 1954. La testimonianza di don Milani sta nell’aver accettato l’esilio, non fuggire la croce, ma legarsi a quel luogo. Una scelta definitiva: nei giorni successivi scende a Vicchio in bicicletta per acquistare, in Comune, il terreno per la tomba. Aveva 31 anni. Ai suoi allievi insegna tutto anche la morte. Il fratello medico gli porta notizie del tumore che avanza e lo fa davanti ai suoi ragazzi, fa lezione fino all’ultimo, sdraiato e sofferente. Agli inizi di maggio del 1967 lascia Barbiana per Firenze in casa della madre. Nell’ultimo mese sono i suoi ragazzi a vegliarlo e assisterlo. E ci sono tutti, anche i più piccoli. Un maestro fino alla fine: far vedere che cosa è la morte, la sofferenza giorno per giorno prima di morire.

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