Parlare della morte con i bambini. E se lo facessimo con le Stele Daunie?

CULTURA

Coco Miguel è un ragazzo messicano con una passione irrefrenabile per la musica, ma in famiglia nemmeno a parlarne. Lui dovrà fare il ciabattino come da tre generazioni, da quando cioè un suo trisavolo ha abbandonato la famiglia per inseguire il suo sogno di musicista. Il ragazzo non si rassegna, ruba la chitarra dalla tomba di un famoso cantante per poter suonare nel giorno dei morti. Non sa che questo gesto sconvolge l’equilibrio del regno della morte, ed è lì che dovrà recarsi per risolvere la questione: nell’aldilà, infatti, vivono bene coloro che sono ricordati, le cui tombe sono curate e rispettate, mentre gli altri sono tristi e soli. “Coco” è un bel film d’animazione, uscito un anno fa, che riflette sulla morte e sul ricordo, e i bambini che hanno visto il film hanno riso, si sono divertiti alle vicende rocambolesche di Miguel, ne hanno parlato vivacemente con i genitori. “Coco” è un inno alla vita, ai riti tramandati dai Maya e dagli Atzechi, ed è stato girato con il coinvolgimento degli stessi ragazzi impegnati nella lavorazione del film e dei loro racconti liberi e simpaticamente macabri. In Messico, nel Dia de muertos, al cimitero si porta musica, cibo e fiori, che vengono anche sparsi lungo il percorso dal cimitero all’altarino costruito in casa, in modo che il morto possa ritrovare la strada.

Per gli europei la morte è una parola che non si deve pronunciare mai, perché brucia le labbra. Il messicano invece la frequenta, la prende in giro, la accarezza, dorme con lei, è uno dei suoi giocattoli preferiti, il suo amore più duraturo” (Octavio Paz, poeta messicano, premio Nobel della letteratura).

Ovunque ci sono storie, tradizioni che narrano il rapporto complesso con la morte; è però un argomento che crea ansia, di cui si deve parlare il meno possibile, specie con i bambini. Eppure con essi è più facile di quanto si creda: si devono solo ascoltare, sentire i loro racconti, le domande assurde, le ipotesi fantasiose. Oltre il cimitero, i luoghi archeologici sono un buon posto per parlare della morte. Gli ipogei Capparelli e quelli di Siponto, anche il parco archeologico… tutti i luoghi dove si avverte il senso del tempo. Le Stele Daunie potrebbero offrire buoni spunti. Ma non si possono vedere; si avvera il timore che “la muffa del castello” possa corrodere “i superstiti segni degli eventi passati, la vita incisa sulle pietre”. Serricchio raccomandava di non lasciarle al buio, erano state poste sui luoghi più assolati e luminosi del Tavoliere (Cupola – Beccarini) perché cercano la luce.

Non si possono vedere e allora potrebbe il poeta Serricchio stimolare la fantasia con la sua raccolta “Stele Daunie”. Un poema su un popolo che ha affidato alle pietre “una lenta cronaca di morte”. Affiora l’immagine di Achille, che ancora si consuma in pianto e ai suoi piedi giace Ettore, che “non attenderà più baci sotto la luna, né del figlio e né di Andromoca chiusa da secoli nel lutto di pietra”. Serricchio ci fa vedere i Dauni che “attorno ai bivacchi si cibavano di molluschi“, mentre “i canti tribali nascevano dalla laguna fra sciami di malaria”, ci fa ascoltare “il brusio di voci intorno al fuoco della sera” e “il pianto sottile dei bambini”. Il poeta ci racconta il canto di Diomede, di Ulisse, di eroi, mostri e uomini miti… Ma ci dice soprattutto che in questo angusto specchio di terra si ricompone con il loro, anche il nostro racconto e quello di “lutti seminati in tutti i continenti…”, ed insieme l’impegno ad inventare “altri domani“.

 

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