“Te lo do io il Reddito!”. E la Cittadinanza?  “Quella può aspettare un po”.

SOCIALE

Li ho incontrati a fine settembre. In quattro si recavano da un artigiano che doveva traslocare con la sua bottega. Tutti intorno ai trent’anni. “Che fate ora? Mi sembrate i quattro dell’O.K. Corral. Vi mancano solo le pistole!”. Non capirono, ma risero. “Abbiamo lavorato ai lidi di Siponto, a togliere ogni mattina le alghe che invadevano la spiaggia”. “Anche a sistemare gli ombrelloni”. Gig economy, direbbero gli esperti. Piccoli lavoretti, da interstizi, quelli dell’ultimo minuto. La crisi (e anche la paura di controlli su piccole e insignificanti attività) ha eroso, annullato le opportunità provenienti da un’economia informale, che permette piccole entrate in nero (a volte in natura): pulire le pescherie, portare i cartoni da imballaggio ai punti di raccolta, sorvegliare il pesce sbarcato di notte, caricare materiali inerti e mercanzie su furgoni, vendere fichi d’India… Questa erosione pare si sia estesa anche alle forme di solidarietà orizzontale (genitori, nonni, vicinato), mettendo in crisi pure il modello di “povertà integrata” del Sud.

I quattro mi dicono che ora non sanno che fare. Ai servizi sociali non hanno trovato nessuno. “E poi non ci dicono niente”. “Beh… ora c’è Rei, il reddito di cittadinanza, un po’ di speranza…”, dico io. Uno dei quattro rimasto fino ad allora in silenzio: “Chi di speranza vive, disperato muore”. Era contento di aver detto una frase che aveva suscitato il consenso di tutti. Rideva con la mano sulla bocca (aveva i denti rovinati). Li conoscevo: non hanno terminato l’obbligo scolastico, esperienze di lavoro precario, formazione precoce di una famiglia, qualcuno pure separato, vivono come capita. Li vedo sempre a piedi e un paio si spostano in bicicletta. Chi più di questi avrebbe bisogno del reddito di cittadinanza? Sono poveri in tutti i sensi. Non hanno nemmeno la furbizia di legarsi a qualcuno e poi fare ai servizi sociali la voce grossa. Hanno bisogno di un reddito e di cittadinanza. Non stanno sul divano, perché il divano forse nemmeno ce l’hanno. Non sono pochi a Manfredonia. Non sono pochi nel Sud. Ma non sanno parlare in italiano, non hanno alcuna competenza, né autonomia, né autostima. E non potranno trovare lavoro, se non quello che fanno già.

Il Rei (insufficiente e da modificare) dà soldi e servizi. La regia è dei Comuni (con gli assistenti sociali), ma i soldi sono erogati dall’Inps, coinvolge Centri per l’impiego, scuole, terzo settore, volontariato, enti di formazione, associazioni di imprenditori … Un lavoro di sinergie, difficile, costante, articolato, perché i bisogni sono complessi. Interrompere questo percorso è incomprensibile. Già dai chiarimenti continui del Governo emerge la complessità dell’intervento: gli accertamenti, i controlli, la valutazione, le spese ammissibili (quelle morali e quelle che non lo sono!). Si danno chiarimenti che pongono ulteriori interrogativi.

Abolite il Rei, ma la card da sola non è sufficiente e non potete ignorare che ci sono persone che vanno, con discrezione, ascoltate, seguite, aiutate a prendersi cura di sé e dei figli. Anche per aggiustare i denti o per curare l’obesità. Non si può confondere povertà e disoccupazione. Il disoccupato può non essere povero, perché vive in un contesto familiare dove ci sono altri redditi. La povertà (anche quella assoluta) può esserci là dove vi è un reddito basso e precario e una famiglia numerosa. Come quella di una donna sola con figli piccoli e senza alimenti dal coniuge.

Il movimento 5 stelle ha il merito di aver posto questo problema al centro. Restano le domande. Era nato per affrontare la disoccupazione giovanile, ma ora i giovani dove sono? Il Contrasto alla povertà e le politiche attive del lavoro hanno aspetti diversi. Se non c’è lavoro, quale la formazione per i beneficiari? Le partenze in massa dal Mezzogiorno di giovani “formati” non testimoniano che il problema fondamentale è “creare lavoro”? E la povertà dei minori? E gli stranieri?  E l’umiliazione della card?

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