Non è un’invasione, né un’emergenza. E ora per favore parliamo di storie vere.

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Una trentina e più di anni fa, su una rivista, lessi la dichiarazione di un diplomatico inglese. “L’Europa fra un decennio sarà come una fortezza assediata e impaurita con i barbari che premono ai confini dell’impero”.

L’immagine si riferisce all’Impero Romano. A quel capitolo di storia chiamato “Invasioni barbariche”. Un capitolo però che in altri paesi nei testi scolastici si intitola “Migrazioni di popoli”. Un lungo oscuro periodo che va dal 400 d.C. fino al 900, poco studiato purtroppo, altrimenti scopriremmo tante analogie e tanti insegnamenti.

Quella frase mi colpì. Allora la presenza degli immigrati suscitava curiosità; qui c’erano i Senegalesi. Oltre duecento a Siponto (Manfredonia), discreti, appartati… Ci furono incontri e scambi culturali, una ricerca e un libro che raccontava il piacere di una scoperta reciproca. Nel Tavoliere c’era il dramma, oltre 10.000 stagionali sotto i ponti o casolari abbandonati. La presenza di missionari scalabriniani permise la nascita di piccoli progetti: insegnamento di italiano, cineforum tematici (migrazioni, cinema africano…), campo di accoglienza nel Tavoliere (con servizio docce, pasti caldi serali). Gradualmente l’attenzione diminuiva, i ghetti mettevano paura, le iniziative di integrazione erano sempre parziali. Nei volontari la passione civile si affievoliva. La politica non sapeva e non riusciva a trovare soluzioni intermedie, pragmatiche. Il problema – immigrazione non entrava nel dibattito politico.

Non so quando… ma si sviluppò una slavina. Non erano le fasce più povere, che temevano di dover condividere con i nuovi venuti un welfare già povero. Erano pezzi interi di società… Una slavina, una marea e tutti parlarono lo stesso linguaggio: emergenza, accoglienza alberghiera, senza controlli e qualità. Circolavano molti soldi, c’era corruzione (“abbiamo fatto soldi a palate!”), poi i casi di cronaca, le periferie oscure e pericolose… Una parola era accarezzata e amata da tutti: rimpatri (o espulsioni). Si litigava solo sui numeri. Sempre c’era chi diceva che occorreva farne di più.

Un unico, monotono racconto, una presenza percepita come incontrollata, un’invasione pericolosa, che attecchisce in comunità dove scarseggiano dialogo, discussione, operosità e iniziative concrete per cambiare la realtà. Per strada, nei mercati, nei luoghi informali e istituzionali si sentono solo megafoni che raccontano le paure, e l’immigrazione condensa le ansie e le incertezze del futuro. Gli esponenti della cosiddetta società civile non partecipano al dibattito pubblico, quello spontaneo, quotidiano. Loro fanno i convegni. I cristiani? “Tanto parla il Papa!”. Il Papa ha detto a Marsiglia parole significative. Siamo nel pantano. Si parla di identità, inclusione, integrazione, multiculturalità, interculturalità… ma sono parole fluttuanti, indefinite, avvelenate persino.

Ora c’è questo film “The years we have been nowhere (Gli anni in cui non siamo stati da nessuna parte). Sarà proiettato a Manfredonia sabato 7 Ottobre. Presentato già a Roma, Napoli, Perugia… nei prossimi giorni sarà a Torino, Pisa, Firenze, Milano Rimini… Il film potrebbe essere l’occasione per riprendere qualche discorso perduto e iniziarne altri. Racconta storie di “Rimpatriati“, ma essi usano il termine “Deportati“. I rimpatri non avvengono sempre nel paese d’origine, ma dove capita, in Stati che sono pagati per riceverli. Nel Regno Unito la discussione politica è stata aspra quando si è saputo che il governo avrebbe pagato il Ruanda per acconsentire al “deposito” di rimpatriati.

Nel film sono i rimpatriati – deportati a raccontarsi. Come Patrick .“Sono partito da Freetown nel 2010. Arrivo a Saint Petersburg, una piccola città vicino a Tampa (Florida). Ottengo il permesso di soggiorno di un anno, comincio a lavorare come collaboratore domestico, mi iscrivo a un corso, dopo un anno mi diplomo, cambio lavoro: tecnico per la sterilizzazione di strumenti nelle sale operatorie. Incontro una ragazza, Dana, di Haiti. Ci sposiamo, arriva un figlio… Inaspettatamente la mia richiesta di asilo è respinta. Il 10 agosto 2015, due agenti mi avvicinano al termine del lavoro, mi portano all’ufficio di polizia, chiedendomi di collaborare. Ero convinto di chiarire il fraintendimento e rientrare a casa. Invece da Saint Petersburg, senza poter salutare nessuno, mi portano a Krome (vicino Miami), un centro di detenzione per migranti irregolari. In America la mancanza di permesso è reato federale. Faccio ricorso, ma la mia richiesta è respinta. Resto nel centro di detenzione finché in Sierra Leone c’è l’Ebola. Appena l’epidemia è superata, due poliziotti mi portano a Freetown”…Il resto della storia di Patrick lo si potrà vedere nel film.

Il docu-film è stato presentato in varie rassegne filmiche. In un festival dei diritti umani (Germania), la presidente ha detto che non avrebbe consentito a far vedere un film così duro. Contemporaneamente è arrivato un premio da Houston (Texas), altre segnalazioni e recensioni in riviste di cinema. E’ un film con immagini crude, dolorose ma da vedere assolutamente per molti critici. Una questione non facile, quella delle immagini violente. Ma si può non far vedere quello che accade lungo le rotte dei migranti per terra e per mare? Nelle foreste polacche e della Bielorussia? O non parlare di quello che avviene nei campi profughi di Turchia e Africa? Si può non parlare dei muri (migliaia di chilometri ormai) che si continuano  a costruire in Europa? Chi avrebbe mai pensato che nelle prossime elezioni europee l’immigrazione (o meglio come contenerla!) sarebbe stato il tema unico, prevalente, decisivo della campagna elettorale?

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