“E sarà domani”. Il teatro necessario per ricominciare

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Nella stazione di Foggia. Dall’altoparlante si annuncia il ritardo del treno per Milano: 40 minuti… poi 60 e oltre. Sono tre i passeggeri che attendono di partire. Disagio, irritazione… Si guardano attorno: qualcuno (immigrato?) dorme nella sala d’aspetto, un clochard si avvicina, vi è chi chiama la polizia… Tra i tre c’è chi vuole sapere e capire e chi giudica e condanna, chi mostra comprensione e chi è carico di rabbia. Vedono, commentano e iniziano a discutere… Parlano all’inizio in modo disordinato e confuso delle reciproche esperienze, dei motivi del viaggio a Milano, di poveri, immigrati, comunità di accoglienza, di una ragazza che scappa, di chi si prende cura… Lentamente si ha la sensazione che i pugni in tasca si aprono, le difese si allentano…

Apprendono con meraviglia che la comunità Emmaus è entrata, per motivi diversi, nella  vita di ciascuno di loro. Per il resto non ci sono critiche dichiarate ai nostri tempi, alla società, né proposte di soluzione ai problemi che si vivono. Niente di tutto questo. In fondo non ci sono idee nuove, originali. Nemmeno parole che consolano.

Eppure questo è uno spettacolo importante, necessario. Tutti (protagonisti e spettatori) avvertono che quella stazione, quello spazio è divenuto uno spazio pubblico, di dialogo, dove si ragiona sui propri problemi e si ascoltano quelli degli altri. Uno spazio informale senza gerarchie. Ed emerge una prima idea… e cioè che se ci si mette insieme, se non ci si chiude, se si ricomincia a coltivare l’arte di portare, con pudore e riservatezza, fuori di se stessi i problemi che angustiano… se non sono privatizzati… ebbene questi pesano di meno, si rielaborano, e si può, persino, senza accorgersene, intravedere qualche soluzione. I tre viaggiatori hanno impiegato bene quel ritardo, lo hanno fatto divenire un tempo buono di democrazia e discussione, per riscoprire il rispetto e il riconoscimento degli altri, la cui mancanza ferisce più di un’aggressione fisica.

Ma proprio la loro esperienza fa emergere una seconda idea: la necessità di partire dal basso, dai luoghi della quotidianità, e provare a parlare di ciò che fa soffrire, delle solitudini, delle paure del futuro. I luoghi informali e aperti sono quelli più ricchi, più disponibili alla sorpresa, alla cooperazione, all’incontro. Lo sono perché non vi è la rigidità dei ruoli e la competizione. Lo sono perché ciascuno si sforza di ascoltare, e nessuno vuole cambiare gli altri. E’ il valore aggiunto della comunità, persone che si incontrano e insieme scoprono una realtà ogni giorno nuova. Non hanno certezze da offrire e cercano di camminare insieme e di stare accanto. Tutto qua, e poi… che accada quel che deve accadere. E può avvenire un piccolo miracolo. Come quello raccontato da De Sica.

“Buon giorno” – “A chi la dì buon giorno – “A lei” – “A me?” – “Sì” – “Ma lei mi conosce?” – “No”- “Ma cosa vuol dire allora con questo buon giorno?”- “Vuol dire veramente buon giorno” – “Ma va… guarda un po’ se ti capita la mattina un bamba qualunque…”. A Totò che esce adulto dall’orfanatrofio, dove è entrato bambino, dopo la morte della mamma, questo primo incontro è l’anticipo di quello che l’attende nella città. E’ l’inizio del film Miracolo a Milano. Ma lui, Totò, non si fa cambiare, la sua mamma gli ha donato uno spirito semplice e l’immaginazione.

E sarà domani” si rappresenta al Teatro del Fuoco (Foggia) dal 6 al 9 Dicembre. E poi in altri luoghi.

 

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