La povertà, le povertà. Ma quando si è poveri?

SOCIALE

Come definirla? E’ possibile raffrontarla con quella di altri paesi? E’ possibile con il passato? Il discorso sulle povertà significa entrare in un campo mosso, incerto. Dalla povertà si può uscire e si può entrare e sono cresciute le famiglie coinvolte in oscillazioni tra autosufficienza e povertà.

La povertà va confrontata con chi vive oggi in Italia. Molti anni fa si poteva andare a scuola con le toppe e con le scarpe visibilmente ricucite. Oggi si rischia di essere emarginati perché non si veste bene. Ma quando si è poveri? Povertà è quella che toglie anche la capacità di immaginare di poter cambiare la propria condizione e quella dei figli. E’ un tunnel difficile da raccontare; e quando sono i giovani che non aspirano più a niente e non sperano più, è una cosa tremenda. La povertà materiale riduce la partecipazione alla vita sociale e politica. Non si pensa ad andare a votare se non si sa come pagare l’affitto e le spese quotidiane.

Quali i beni essenziali, senza i quali si è poveri? La casa, l’acqua, il gas, l’elettricità. Se poi si ha il televisore, internet, il cellulare? E se questo è di ultima generazione? Altra distinzione: reddito e ricchezza. Non tutti coloro che hanno un reddito basso sono privi di ricchezza. Possono avere una casa, quote su case o terreni ipotecati… “Ma posso mangiare la casa?”

Vi è la povertà temporanea, ricorrente, persistente, e poi quella che si eredita. Per ognuna di queste c’è bisogno di interventi su misura. La temporaneità è legata a un infortunio, a una malattia grave, alla perdita della fonte di reddito. Ci sono “famiglie che sono assistite da una vita”, ma ci sono anche famiglie che si sono rese autonome. E sono orgogliose di esserci riuscite, anche parzialmente.

Vi è la povertà derivata da separazioni e divorzi (due case, doppie bollette…), con assegni familiari inadeguati. Si ritorna a casa dei genitori o si dorme in auto. Poi quella per precarietà lavorativa, per numero dei figli, per le patologie gravi, e ancora la povertà degli immigrati. Ma a questi si può dire di no se chiedono aiuto, e si viene elogiati. “Potevano stare a casa loro!

A volte si sente dire che certe situazioni se la sono cercata (separazioni e stili di vita non corretti). Di fronte alla perdita di lavoro, è difficile rimodulare le scelte (specie quando ci sono i figli). E’ visibile lo smarrimento delle mamme che cercano di mantenere il benessere standard e non fare sapere niente agli insegnanti, agli amici, agli stessi figli. “E non deve andare alla gita scolastica?” “Quest’anno c’è la prima Comunione!”. Chiedono un lavoro, fare la badante. E’ lo standard di vita che si fa fatica ad abbassare.

Avere un lavoro è la migliore garanzia contro la povertà. Ma non protegge totalmente se si ha un solo reddito e una famiglia con figli. Così come la mancanza di lavoro o un lavoro a bassa remunerazione non sempre si accompagna a povertà (in presenza della rete familiare, ammortizzatori sociali, altri redditi in famiglia). La non coincidenza tra disoccupazione e povertà, intesa come mancanza di reddito, è di molti giovani che vivono con i genitori che hanno una buona pensione e di donne che hanno il marito che lavora. Anche nei casi di famiglie in cui tutti i componenti sono senza lavoro, lì può contare la rete. Dove mancano le relazioni e la rete, lì le famiglie non riescono nemmeno a immaginare dove trovare appigli per non precipitare ancora più giù. In ogni caso, pensare che l’aumento dell’occupazione generi automaticamente una riduzione delle povertà è una illusione, perché il lavoro può riguardare famiglie non povere: figli con padre e madre che lavorano o con un alto livello di istruzione. Anzi la maggior parte del lavoro riguarda queste persone.

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