La chiesa che cambiò nome e riscoprì la fragilità e l’umiltà, che è virtù civile.

CULTURA

Michelangelo Manicone scrive nel 1806 che a Manfredonia “le chiese erano pavimentate di cadaveri”, per questo la città era “desolata” dalle malattie.

Nel 1794 il governo prescrisse, assecondato dall’Arcivescovo Francone, la costruzione di un nuovo cimitero fuori le mura, nei pressi della chiesetta Croce. Fu boicottato, dice il frate Manicone, dalle famiglie gentilizie che rivendicavano la sepoltura nelle chiese, e poi dai preti che si rifiutavano, senza un compenso adeguato, di accompagnare i defunti oltre le mura. “Si abbandonavano i cadaveri ai soli beccamorti”, quindi, e, nei pressi della Croce nessuno veniva seppellito, se non i poveri e i forestieri. A fine secolo ci fu un’epidemia di vaiolo, molti bambini morirono. E nelle chiese e in piazza Duomo non si poteva stare per il puzzo, a causa del gran numero dei bambini sepolti.

Si intervenne d’autorità. Si pensò ai primi dell’Ottocento ad un nuovo cimitero intorno al complesso conventuale costruito nel XVI secolo, lontano dal centro abitato, per dare ai frati la possibilità di avere un proprio orto. In quegli anni c’era entusiasmo per la grande vittoria a Lepanto (1571) della flotta cristiana sui musulmani, e la Chiesa dei Cappuccini (ci lavorò anche S. Camillo de Lellis) fu dedicata a S. Maria della Vittoria, come tante altre in quel periodo. Fu rovinata e saccheggiata dai Turchi nel 1620 e quando venne ricostruita, alcuni anni dopo, mutò nome in S. Maria dell’Umiltà. Una scelta sorprendente, straordinaria e coraggiosa, nell’epoca della Controriforma, con una Chiesa forte e potente. Erano i tempi della condanna al rogo di Giordano Bruno (1600), del processo a Galilei (1633)…

Umiltà, parola antica, deriva da humus, terra. L’umiltà nasce dalla consapevolezza della vulnerabilità, fragilità, mortalità. Qualche anno fa in un funerale: “Quanti anni aveva?” “81 anni!” “Non era mica tanto vecchio!”. Un anziano contadino, mentre seguivamo il feretro, commentò: “Un tempo a 80 anni pochi ci arrivavano, l’asticella si alza sempre più… In momenti come questo pensiamo alla morte e ci sentiamo più buoni, tutti bisognevoli… Se lo facessimo più spesso…” Aveva ragione, è la mortalità della persona che fonda ogni valore. E’ importante “per ognuno di noi sapere che resteremo quaggiù per un tempo limitato… non negoziabile”. Che la nostra vita abbia un termine non è qualcosa di negativo o scoraggiante, anzi, può “essere uno sprone necessario a contare i nostri giorni e a farli contare”. Se neghiamo l’invecchiamento, se cancelliamo la morte avremo un mondo di anziani, affondato nella noia e nella routine. Non ci sarebbe la sorpresa, lo stupore e la curiosità di quelli che vedono il mondo per la prima volta. La speranza dell’umanità sta in “questo cominciare sempre di nuovo, conseguibile soltanto al prezzo di finire sempre di nuovo” (Jonas) .

Passeggio per Monte S. Angelo e vedo in alcune strade il 60 70% delle abitazioni a piano terra chiuse, senza bambini, senza botteghe artigiane… tutto è avvenuto negli ultimi venti trenta anni. La mortalità non è solo delle persone, ma dei paesi, delle comunità che nascono e muoiono, ed è il ricambio continuo che permette di conservare giovinezza e creatività. Nessuna istituzione è nata per durare, deve morire e trasformarsi continuamente, nessuna scelta, nessun progetto per quanto sembri perfetto vale per sempre. Una comunità è oggi possibile solo se si riconosce in un modello aperto, capace di accogliere dissenso e critiche, forme di revisione, verifiche, mutamenti. E questo vale per qualsiasi gruppo, associazione, partito.

Umiltà è una virtù civile, la cui mancanza oggi si rimprovera alle élite, alle classi dirigenti. Arroganza, senso di onnipotenza e impunità, cultura da clan, presunzione di occupare ogni spazio, incapacità a riconoscere quando è tempo di smettere… Tutte questioni di umiltà. Parola antica. Cara a Dante. Una passeggiata al cimitero della propria o di altre città, potrebbe aiutare a conoscerla e comprenderla.

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