Don Milani. “Celebrato” per bene. Ridotto ad aforismi piace, ma è ancora vivo e presente?

SOCIALE

Don Milani continua a stimolare, le sue massime, le sue “pillole” piacciono. Ma in tanti interventi non c’è traccia del linguaggio, del conflitto di classe che lui riapre, del nuovo galateo, dell’inventarsi un modo critico di essere nel mondo.

In una classe si è posta la solita domanda: quale sarebbe la posizione di don Milani sulla guerra? La ricorrenza del centenario si celebra pochi giorni dopo la venuta di Zelenskij a Roma. Allora i governanti italiani dissero: la pace non è resa. Sarebbe stato inopportuno fare un cenno alle posizioni del priore di Barbiana sulla pace e sulla non violenza? A citarlo è stato il ministro Guido Crosetto: “Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diseguali” . La frase si trova in “Lettera a una professoressa” ed è riferita alla scuola e agli alunni. Ma Crosetto la riporta al conflitto: l’Ucraina è più debole della Russia, per questo l’Occidente deve appianare la differenza!

Don Milani ha subito due processi per apologia di reato. Tutto è partito da un articolo: la Nazione del 12 febbraio 1965 pubblica un comunicato dei cappellani militari della Toscana, in cui dicevano che l’obiezione di coscienza era “insulto alla patria e ai suoi caduti, una espressione di viltà”. A Barbiana, la lettura del giornale occupava molto spazio. Lettura, discussione collettiva, e frequentemente si rispondeva per integrare o dissentire. Don Milani lesse l’articolo, i suoi ragazzi si indignarono per l’insulto a cittadini obiettori carcerati (in quel periodo erano trentuno), e per la leggerezza e superficialità delle argomentazioni. Decisero di rispondere con una lettera aperta, lunga e articolata.

Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso io non ho patria, e reclamo il  diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri. Se voi avete il diritto di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente ed eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi… le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.

La risposta fu inviata ai preti e a molti giornali. Solo il periodico comunista Rinascita la pubblicò. Ne venne fuori un dibattito aspro. Don Milani ricevette lettere con insulti, minacce… La Curia lo criticò e un gruppo di ex combattenti presentò un esposto alla procura di Firenze, con l’accusa di incitamento alla disubbidienza e diserzione. Fu rinviato a giudizio con il direttore di Rinascita, Pavolini. Dispiacque al priore questo casuale abbinamento, dal momento che la rivista comunista difendeva idee che non le si addicevano, quali la non violenza e la libertà di coscienza.

Il sacerdote, molto malato, non potendo presenziare al processo (15 febbraio del 1966), inviò una memoria difensiva. Il Pubblico Ministero chiese 8 mesi, ma i due imputati furono assolti. Si andò in appello il 28 ottobre 1967, don Milani morì 4 mesi prima. Nella “lettera ai giudici” (pubblicata dopo il processo con il titolo “L’obbedienza non più una virtù”), don Milani fa riferimento esclusivo alla Costituzione  e tralascia il Vangelo. Manifesta di sentire l’obbligo non solo morale ma anche civico di demistificare tutto e di insegnare che le frontiere sono concetti superati, “paletti di confine sempre in viaggio”. Parla delle guerre del Novecento e di quelle future, della crescita enorme delle vittime civili rispetto a quelle militari. Dopo Hiroshima, con i nuovi armamenti, viviamo tragicamente il nostro tempo, dove l’uccisione dei civili è parte della strategia di ogni conflitto. “La guerra difensiva non esiste più, non esiste più una guerra giusta“. “C’è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”.

Le parole dette dal presidente Mattarella a Barbiana sono giuste: maestro, educatore, prete scomodo, urticante, il parlare poco curiale, il valore della conoscenza, la fatica dell’impegno… Ma la specificità di don Milani è legata a una vita vissuta nel presente. Il suo metodo non è esportabile. Forse leggendo i suoi testi, lettere e pagine sparse, semi lasciati a germinare… E poi vale quello che rispose a un giornalista che gli chiedeva il senso di una sua affermazione. “Ma non la penso più come allora, ho cambiato idea“.

Share on FacebookShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on LinkedIn