E’ guerra totale. Senza politica e senza Europa. Come ricordare la shoah e quanto oggi accade?

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Era il Natale del 1914. Primo anno di guerra. Sul fronte delle Fiandre e poi man mano in altre zone. Per alcune ore, ed anche un paio di giorni, la battaglia si fermò.

Del fenomeno se ne parla nel gennaio successivo sui giornali americani; le notizie si ricavano dalle lettere dei soldati, sfuggite alla censura. Vicino a Ypres, la vigilia di Natale, gli inglesi sentono canti natalizi e grida di auguri, provenienti dallo schieramento tedesco, vedono anche piccoli alberelli illuminati da candele posti sulle trincee. Il bersaglio giusto dei cecchini, invece nessuno spara. Alcuni soldati tedeschi escono fuori e gridano: “Noi non spariamo”. Poi escono gli inglesi… Si stringono le mani, si scambiano qualcosa, qualsiasi cosa: sigarette, guanti, berretti, cioccolato… Si mostrano le foto dei familiari, qualcuno piange… Gesti semplici, spontanei di migliaia di giovani prostrati da una guerra di posizione che mostra la sua crudezza. Approfittano della tregua per seppellire i caduti, e sono ancora convinti che tutto finirà presto.

La tregua irritò le autorità; in seguito, nei “natali” successivi, ci provarono ancora a fermarsi, gli ufficiali, però, vigilavano… poi la ferocia della guerra, l’uso del gas, la criminalizzazione del nemico, la fucilazione di prigionieri e disertori… i comandi militari facevano di tutto per annientare il senso di umanità dei soldati. Ci provarono anche sul fronte italiano. Ho letto un quaderno di memorie di un soldato di S. Giovanni Rotondo, che racconta del Natale 1916: canti e auguri, ma gli ufficiali intervennero, però, per qualche ora della notte non si sparò.

Le trincee sono state per tutti uno shock. In mezzo una terra di nessuno, da 50 a 200 metri, spazio per assalti insensati e feroci, disseminato di cadaveri, lamenti strazianti di soldati con corpi mutilati che impiegano ore e giorni per morire. Proprio da quella guerra si origina lo svilimento del corpo che accompagna tutto il ‘900.  Perdita di dignità e sacralità. Continuata nel secondo conflitto mondiale e negli innumerevoli conflitti e pulizie etniche.

Oggi, due guerre diverse, di un’atrocità indicibile, che dividono le opinioni pubbliche occidentali, che osservano. Due guerre dove la religione ha un peso. La sacralizzazione della fede e la visceralità dell’odio fanno crescere la disumanizzazione dell’avversario e della sua cultura, non fanno comprendere quando dire basta, impediscono di porre la domanda se la conquista di lembi di terra possa valere migliaia di vite umane. Così un ministro israeliano parla di uso del nucleare; mentre il capo di Hamas sentenzia che non dovrà esserci “nessun ebreo tra il Giordano e il mare”. La politica è assente, non ci sono personalità in grado di riportarla al centro e dire: fermiamoci, ed anzi i leader europei hanno indossato l’elmetto e hanno alimentato i conflitti. Lo scontro è antico e nuovo, soldati ipertecnologici e guerrieri primitivi, battaglia casa per casa e droni dall’alto.

Obiettivo sono i civili. Dalla seconda guerra mondiale (bombe su Londra, stragi naziste nelle pianure dell’est, Dresda, totalmente distrutta, due atomiche a guerra finita), poi Vietnam, Afghanistan, Iraq… Ora ritroviamo le stesse macerie. “Gaza è come Dresda!“. Un’impresa immobiliare israeliana propone villette tra i palazzi distrutti: “Sorgerà un nuovo insediamento: una casa in riva al mare non è un sogno”. In Ucraina i paesi sostenitori hanno preparato da oltre un anno i piani di ricostruzione. Gli esodi. Dall’Ucraina sono scappati milioni di donne e bambini, si sono sistemati nelle città europee. I più poveri e i malati sono rimasti. A Gaza, non ci sono né campi profughi, né tende dove ripararsi… I morti palestinesi sono oggi oltre 20.000. Nei prossimi due mesi si prevedono almeno 50.000 morti complessivi di cui 30.000 donne e bambini. I reduci, i mutilati… Centinaia di migliaia. Ho visto due foto: un bambino a Gaza senza le gambe e in Ucraina sulla spiaggia una ragazza e un giovane senza gambe. Tutto peserà sulle generazioni future. I reduci e i mutilati del Vietnam hanno pesato a lungo e pesano ancora sulla società americana.

“Che ne sarà della shoah?” Mi chiede un amico. Lo guardo un po’ irritato e sorpreso. Lui sa che ho adottato a scuola “Se questo è un uomo” di Primo Levi nei primi anni Settanta. Ho organizzato all’Università terza età un corso sulla letteratura ebraica. Ho curato la giornata della memoria. Ogni volta non mancavano le domande dei ragazzi sugli armeni, i nativi americani, le foibe… Dicevo che trovavo giusto parlare di altre memorie, ma sottolineavo la diversità della Shoah. Di fronte alla prossima giornata della memoria non mancherà la domanda sulla strage dei palestinesi. La Shoah resta un unicum per il corredo delle leggi razziali, la disumanizzazione di un’etnia, la perdita dei diritti civili, la volontà di cancellare un popolo… Però, quella domanda peserà.

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